
Articolo da TgCom.it
Quello che sei sul campo di calcio, lo sei nella vita. E, di conseguenza, anche nella morte. Una metafora vecchia come il pallone, ma ancora e sempre valida, vera. Due geni irregolari come Garrincha e Best se ne sono andati come tante volte hanno agito sul prato verde: un dribbling, un altro, un altro ancora, si può dare via la sfera e invece no, bisogna andarsela a cercare, avanti con la sfida al destino fino al puntuale, inevitabile contrasto con l’avversario che ti porta via tutto. Giacinto Facchetti ha lottato fino al 90° minuto e anche oltre contro lo svantaggio inflittogli dal male: lo ha fatto con correttezza, dignità, stile, determinazione, le stesse cose che buttava in campo quando era il cavaliere senza macchia e senza paura dell’Inter e della Nazionale.
Le copertine, i titoli, le polemiche urlate o piagnone, le idolatrie erano poi per gli altri, tipo il Mazzola padroncino nerazzurro o magari il Rivera piantagrane e deus-ex-machina dei mondiali messicani. Lui se ne stava dietro, non mollava un metro, contribuiva in modo fondamentale a reggere la baracca. Appena c’era lo spazio, andava davanti ad attaccare e, spesso, riusciva a sbattere dentro il gol. E’ stato il primo difensore-cannoniere della storia del calcio italiano e forse mondiale, Facchetti, e anche il primo grande giocatore-simbolo della nostra Nazionale, l’anticipatore degli Zoff, dei Paolo Maldini, dei Cannavaro. La spiegazione, più che in tante parole, sta in una vecchia copertina, quella dell’Almanacco del calcio illustrato Panini, anno di grazia 1972. C’è lui, con maglia azzurra e regolare fascia di capitano al braccio, palla al piede mentre è lanciato come un quattrocentista nei pressi della linea laterale. Il quadricipite è teso, perfetto, l’immagine della potenza; lo sguardo è lucido a dispetto dello sforzo; dietro di lui, sfuocata, la panchina azzurra con tutte le teste girate verso la sua schiena, come fosse passata una Ferrari o una bella ragazza.
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